Associazione Lachesi: seminario sul sogno.
Empoli, sabato 10 luglio 2010, ore 10.
Sogno o son desto - Si sogna solo se si è desti
Ho sognato un graffio.
Avevo in mano un copertone con un'incisione e lo mostravo ad un mio amico dicendo: "Vedi, è rimasto così ...". Lei mi ha detto che non sono elastico, che certe ferite sono rimaste aperte.
Oggi capisco che cosa vuol dire essere sotto anestesia. Non si sente nulla ... il tempo scorre senza lasciare traccia apparente, quasi sempre condito da uno strano malessere, uno sgradevole senso di estraneità.
Oggi rivedo quella sensazione e la comprendo: anche il "miglior" farmaco ha dei limiti e il malessere è ciò che il farmaco non riesce a sopprimere... più rifiuti te stesso in nome di un conformismo disumano e più ti avvii verso la fossa.
Intuisco tutto questo e ne ho paura. Resisto all'idea di vedere ciò che non vorrei mai vedere. Dall'altro lato avverto delle sensazioni che non ricordavo. Accanto al freddo e alla solitudine trovo il calore e la speranza - delle stringhe verdi che una barbona tiene in mano.
All'inizio ho quasi paura a pronunciarne il nome, come se nominare qualcosa volesse dire allontanarla da me.
A Dicembre arriva un dono inatteso. Un regalo di Natale come non ne ricevevo da tempo: un gesto di amore incondizionato, condiviso con altri. Coglierlo a pieno mi ha fatto arrendere e la notte ho sognato.
"Sono in una città agghiacciante, piena di muri alti come muraglie e priva di anima viva. Intravedo alcuni sgherri in divisa, che procedono come teppisti della peggior specie, con lunghi manganelli legati ai fianchi. Mi fermano:" Occhio, qui poco casino, tanto ci pensiamo noi a tener tutto sotto controllo" e ridono. Mi sento disgustato, penso:"Ma questi sono pazzi!". Inizio a toccare i muri di un palazzo e trovo un'incisione, un graffio. Capisco che è il segno di qualcuno che conosco. "E' qui" e apro una porta. Percorro, spaventato dall'orrore che sto vedendo, un corridoio lungo e buio e in fondo vedo un uomo riverso a terra, gonfio di botte, circondato da un tozzo di pane e un pò di medicine. Cado in ginocchio e scoppio in lacrime: "Che ti hanno fatto? Come ti hanno ridotto?". "Questi sono pazzi, me le hanno date di santa ragione, sono vivo per miracolo!". Le mie lacrime non si fermano, è un pianto di dolore puro. Lo abbraccio forte e lo sollevo. "Vieni, ti porto via di qui ..." dico con la voce rotta. E ci incamminiamo attraverso un altro cunicolo buio."
Al risveglio le lacrime non si fermavano e non si sono fermate per settimane. Solo il pensiero delle botte che mi sono dato e che ho dato mi straziava. Ma era dolore puro, senza confusione, che mi faceva intravedere una speranza di vita nuova, che sotto anestretico non si può sentire.
"Per le vie dell'inferno, sotto il diluvio, senza fiato e col cuore in gola, un flebile chiarore: sono le camelie".
Gonfiarsi di medicine e campare con un tozzo di pane è ciò che spesso ci viene proposto: uccidere la vitalità in cambio di un'esistenza da lombrichi, dove è impossibile sentire il dolore, ma anche la gioia, la bellezza, l'amore ... La morte si nasconde dietro gli stereotipi, il freddo razionalismo, i modelli. Invece, "ogni volta è un mondo nuovo.Io rivivo. Io il mio tunnel l'ho imboccato e desidero percorrerlo fino in fondo. Sarà faticoso e doloroso ma vivrò e godrò ... "Ma lui vide quelle vie? Dopo la caduta come si rinasce? Quali nuove pupille negli occhi bruciati?Dove comincia la guerra e dove finisce? Allora, una camelia".
Lorenzo
Avevo in mano un copertone con un'incisione e lo mostravo ad un mio amico dicendo: "Vedi, è rimasto così ...". Lei mi ha detto che non sono elastico, che certe ferite sono rimaste aperte.
Oggi capisco che cosa vuol dire essere sotto anestesia. Non si sente nulla ... il tempo scorre senza lasciare traccia apparente, quasi sempre condito da uno strano malessere, uno sgradevole senso di estraneità.
Oggi rivedo quella sensazione e la comprendo: anche il "miglior" farmaco ha dei limiti e il malessere è ciò che il farmaco non riesce a sopprimere... più rifiuti te stesso in nome di un conformismo disumano e più ti avvii verso la fossa.
Intuisco tutto questo e ne ho paura. Resisto all'idea di vedere ciò che non vorrei mai vedere. Dall'altro lato avverto delle sensazioni che non ricordavo. Accanto al freddo e alla solitudine trovo il calore e la speranza - delle stringhe verdi che una barbona tiene in mano.
All'inizio ho quasi paura a pronunciarne il nome, come se nominare qualcosa volesse dire allontanarla da me.
A Dicembre arriva un dono inatteso. Un regalo di Natale come non ne ricevevo da tempo: un gesto di amore incondizionato, condiviso con altri. Coglierlo a pieno mi ha fatto arrendere e la notte ho sognato.
"Sono in una città agghiacciante, piena di muri alti come muraglie e priva di anima viva. Intravedo alcuni sgherri in divisa, che procedono come teppisti della peggior specie, con lunghi manganelli legati ai fianchi. Mi fermano:" Occhio, qui poco casino, tanto ci pensiamo noi a tener tutto sotto controllo" e ridono. Mi sento disgustato, penso:"Ma questi sono pazzi!". Inizio a toccare i muri di un palazzo e trovo un'incisione, un graffio. Capisco che è il segno di qualcuno che conosco. "E' qui" e apro una porta. Percorro, spaventato dall'orrore che sto vedendo, un corridoio lungo e buio e in fondo vedo un uomo riverso a terra, gonfio di botte, circondato da un tozzo di pane e un pò di medicine. Cado in ginocchio e scoppio in lacrime: "Che ti hanno fatto? Come ti hanno ridotto?". "Questi sono pazzi, me le hanno date di santa ragione, sono vivo per miracolo!". Le mie lacrime non si fermano, è un pianto di dolore puro. Lo abbraccio forte e lo sollevo. "Vieni, ti porto via di qui ..." dico con la voce rotta. E ci incamminiamo attraverso un altro cunicolo buio."
Al risveglio le lacrime non si fermavano e non si sono fermate per settimane. Solo il pensiero delle botte che mi sono dato e che ho dato mi straziava. Ma era dolore puro, senza confusione, che mi faceva intravedere una speranza di vita nuova, che sotto anestretico non si può sentire.
"Per le vie dell'inferno, sotto il diluvio, senza fiato e col cuore in gola, un flebile chiarore: sono le camelie".
Gonfiarsi di medicine e campare con un tozzo di pane è ciò che spesso ci viene proposto: uccidere la vitalità in cambio di un'esistenza da lombrichi, dove è impossibile sentire il dolore, ma anche la gioia, la bellezza, l'amore ... La morte si nasconde dietro gli stereotipi, il freddo razionalismo, i modelli. Invece, "ogni volta è un mondo nuovo.Io rivivo. Io il mio tunnel l'ho imboccato e desidero percorrerlo fino in fondo. Sarà faticoso e doloroso ma vivrò e godrò ... "Ma lui vide quelle vie? Dopo la caduta come si rinasce? Quali nuove pupille negli occhi bruciati?Dove comincia la guerra e dove finisce? Allora, una camelia".
Lorenzo
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Sogno
Parche (Moire)
MOIRE (greco: Moirai; latino: Parcae o Fata): generalmente si
ritiene che le Moire non fossero in grado di determinare il destino, eppure alla nascita di Meleagro giocano un ruolo decisivo e
in questo mito sembra addirittura che la loro origine affondi nella funzione di presiedere alla nascita degli esseri umani e in quel
momento decidere quale debba essere la sorte in vita del nascitu
ro.
Parcae significa «coloro le quali allevano i bambini» e Moi rai «chi spartisce».
Sette giorni dopo la nascita di Meleagro le Moire apparvero a sua madre e le dissero che suo figlio sarebbe morto nel momento in cui il ceppo che bruciava nel camino si fosse spento. La madre di Meleagro tolse il ceppo dal fuoco, lo nascose e lo conservò fino al giorno in cui Meleagro uccidendo i suoi fratelli scatenò la sua vendetta e trovò la morte mentre il ceppo veniva rimesso nel fuoco.
Secondo Esiodo le Moire erano tre, figlie della Notte: Cloto (la filatrice), Lachesi (la misuratrice) e Atropo (colei che non si può evitare).
Le chiama figlie di Zeus e di Temi, il cui nome significa «ordine».
E così pone l'accento sull'ambiguità della loro posizione chie dendosi se lo stesso Zeus dovesse sottostare alle Moire o se gli dei fossero liberi di cambiare e intervenire nelle decisioni.
Secondo la maggior parte degli autori classici le Moire erano superiori agli dei: sia Omero che Virgilio ritengono che Zeus, il quale pesa sulla bilancia la vita degli uomini, debba informare le Moire delle sue decisioni, comportandosi quindi da esecutore del destino invece che come il principale agente determinante. Zeus sa che suo figlio Sarpedone è destinato a morire per mano di Patroclo ma non può o non vuole modificare il destino nemmeno per salvare un figlio molto amato.
Tutto ciò che può fare è accertarsi che Sarpedone riceva gli onori funebri che spettano al suo rango nella sua patria, in Licia.
Anche Eschilo nel Prometeo incatenato suggerisce nello stesso modo che Zeus debba sottostare alle Moire.
In una tradizione più tarda il nome Cloto per i suoi riferimenti al verbo «filare» modifica l'immagine delle Moire che diventano tre anziane donne:
Cloto fila dal fuso il filo della vita, Lachesi lo misura e Atropo lo recide.
Nella mitologia le Moire non compaiono che raramente.
Com batterono al fianco di Zeus nella battaglia contro i Giganti e armate di clave uccisero Adrio e Toante, e poi alla battaglia contro Tifone quando gli consigliarono, mentendo, sempre per aiutare Zeus, di sottoporsi a una dieta a base di carne umana assicurandolo che ciò gli avrebbe dato forza.
Apollo rideva delle Moire e un giorno riuscì a ubriacarle con l'inganno per salvare la vita del suo amico Admeto che ebbe il tempo di trovare qualcuno che morisse in sua vece.
Grant - Hazel,
Dizionario della mitologia classica,
SugarCo Edizioni, Varese, 1979
Parcae significa «coloro le quali allevano i bambini» e Moi rai «chi spartisce».
Sette giorni dopo la nascita di Meleagro le Moire apparvero a sua madre e le dissero che suo figlio sarebbe morto nel momento in cui il ceppo che bruciava nel camino si fosse spento. La madre di Meleagro tolse il ceppo dal fuoco, lo nascose e lo conservò fino al giorno in cui Meleagro uccidendo i suoi fratelli scatenò la sua vendetta e trovò la morte mentre il ceppo veniva rimesso nel fuoco.
Secondo Esiodo le Moire erano tre, figlie della Notte: Cloto (la filatrice), Lachesi (la misuratrice) e Atropo (colei che non si può evitare).
Le chiama figlie di Zeus e di Temi, il cui nome significa «ordine».
E così pone l'accento sull'ambiguità della loro posizione chie dendosi se lo stesso Zeus dovesse sottostare alle Moire o se gli dei fossero liberi di cambiare e intervenire nelle decisioni.
Secondo la maggior parte degli autori classici le Moire erano superiori agli dei: sia Omero che Virgilio ritengono che Zeus, il quale pesa sulla bilancia la vita degli uomini, debba informare le Moire delle sue decisioni, comportandosi quindi da esecutore del destino invece che come il principale agente determinante. Zeus sa che suo figlio Sarpedone è destinato a morire per mano di Patroclo ma non può o non vuole modificare il destino nemmeno per salvare un figlio molto amato.
Tutto ciò che può fare è accertarsi che Sarpedone riceva gli onori funebri che spettano al suo rango nella sua patria, in Licia.
Anche Eschilo nel Prometeo incatenato suggerisce nello stesso modo che Zeus debba sottostare alle Moire.
In una tradizione più tarda il nome Cloto per i suoi riferimenti al verbo «filare» modifica l'immagine delle Moire che diventano tre anziane donne:
Cloto fila dal fuso il filo della vita, Lachesi lo misura e Atropo lo recide.
Nella mitologia le Moire non compaiono che raramente.
Com batterono al fianco di Zeus nella battaglia contro i Giganti e armate di clave uccisero Adrio e Toante, e poi alla battaglia contro Tifone quando gli consigliarono, mentendo, sempre per aiutare Zeus, di sottoporsi a una dieta a base di carne umana assicurandolo che ciò gli avrebbe dato forza.
Apollo rideva delle Moire e un giorno riuscì a ubriacarle con l'inganno per salvare la vita del suo amico Admeto che ebbe il tempo di trovare qualcuno che morisse in sua vece.
Grant - Hazel,
Dizionario della mitologia classica,
SugarCo Edizioni, Varese, 1979
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