Dottor Francesco Giubbolini, Siena

La relazione del dottor Francesco Giubbolini dal titolo: "Individuo, gruppi e società. Una prospettiva psicodinamica", presentata il 6 marzo scorso in occasione della presentazione della Associazione 'Lachesi'.

Il concetto di 'individuo' è fondamentale in una cultura come la nostra, che si rappresenta - anche se non sempre è - come una civiltà che riconosce il valore dell'individuo - persona.
Il concetto di 'soggetto', e di 'relazione soggetto - oggetto'' - o meglio - di 'relazione tra soggetti', è tema chiave della nostra cultura e della nostra filosofia.

Il soggetto si configura progressivamente, nel corso della storia, come individuo la cui caratteristica fondamentale è quella dell'autonomia, fulcro del sistema socio culturale.
E' altresì ovvio che tale idea di autonomia si applica e si definisce nel contesto delle relazioni tra individui soggetti e non in assenza di queste.

L'identità quindi è espressione di autonomia e - contemporaneamente - di relazioni.

E' questa la base dalla quale partiamo per affrontare un qualche abbozzo di discorso che interessa e riguarda l'individuo e il gruppo e, successivamente, la società (da un punto di vista psicodinamico).

La pratica della psicoterapia, oltre ad implicare teorie scientifiche, è e può essere ance pratica sociale in grado di produrre non solo effetti personali ma anche collettivi diffusi e degni di interesse.
In tal senso possiamo parlare della liceità della de-medicalizzazione in ambito psichiatrico e psicoterapico: non solo teoria scientifica e/o prassi medica ma anche occasione di ricerca e riflessione nell'ambito dei rapporti interpersonali e sociali.
Rapporti interpersonali da intendersi come caratterizzati da capacità di scambio, di separazione, di trasformazione, i quali possono consentire ed esprimere il processo di integrazione personale, ovvero l'uso del passato nel presente e l'orientamento verso il futuro. Ritorno tra breve su questo punto, relativo all'uso - se così si può dire - del passato nel presente ed alla questione dell'orientamento verso il futuro, spiegandone il significato, perchè mi pare di particolare rilievo ai fini del mio discorso; ed un sogno, di cui riferirò - mi pare possa illustrare in maniera quanto mai appropriata ciò che intendo - con questo mio discorso - sostenere.

Ma intanto qualche precisazione a proposito di quelli che si possono considerare e definire come gli obiettivi della psicoterapia, nell'ottica dell'integrazione del sé, ma anche delle dinamiche di gruppo e dell'idea di integrazione sociale.

Possiamo definirli come segue:
1) Una profonda conoscenza di sé, al fine di evidenziare aspetti problematici ed aree disfunzionali, che consenta la progressiva acquisizione di insight (consapevolezza).
2) Il superamento stabile di tali dinamiche disfunzionali, anche qualora risultino inizialmente ego-sintoniche.
3) L'aumento delle capacità individuali di assumersi responsabilità, critica, autonomia e competenza sociale, al fine di ottenere un valido e sano adattamento alla parte sana della realtà nella quale si vive ed un altrettanto chiaro e netto rifiuto di quelle dinamiche (siano esse personali, relazionali o sociali) magari normali ma non per questo obbligatoriamente sane.
In sintesi quindi obiettivo della psicoterapia è quello di un cambiamento funzionale che aumenti le capacità di integrazione relazionale e sociale ed una sempre più ampia capacità di adattamento unite però alla capacità di distinguere in modo chiaro ciò che nell'usuale vivere sociale riconduce alla possibilità che esista una norma non necessariamente sana ed alla conseguente necessità e capacità di opporsi validamente ad essa.

Nel procedere di una psicoterapia il primo passo è quello di cercare di rendere l'individuo in grado di sviluppare empatia ed integrazione, anzitutto in relazione al proprio passato, quindi in generale nei confronti di sé medesimo, consentendo - tale processo - il consolidamento di quello che si definisce il 'nucleo affettivo del sé', il quale consolidamento conduca poi allo sviluppo del senso di reciprocità e quello di un valido senso del 'noi'.

Intendo con 'empatia' una disposizione emotiva ed un interesse benevolo anzitutto nei confronti di tutto ciò che è il 'sé', e successivamente di ciò che va oltre il sé e che si accompagna quindi alla disponibilità nei confronti dell'esplorazione e della crescita. Ovvero, in altri termini: una sorta di benevolenza da sperimentare nei confronti di noi medesimi, e di tolleranza rispetto alla consapevolezza dei nostri limiti, i quali dovrebbero essere vissuti come spunto da cui partire per una ricerca personale e non come limite invalicabile contro cui tale ricerca si infrange.

Intendo poi con il termine ' integrazione' l'occasione di realizzare un "affrancamento dalla dolorosa ripetizione di processi distruttivi ed auto-distruttivi del passato" (Emde), che conduce ad un processo di integrazione tra presente e passato consentendo così di acquisire senso di integrità personale e relazionale e senso di continuità, il quale a sua volta prelude allo sviluppo del senso del noi, del futuro, ed all'occasione di nuove e diverse modalità di relazione oggettuale.

Psicopatologia è la perdita o il mancato raggiungimento di tale condizione di integrazione personale, di tale empatia, e di tale sentimento (o capacità) di condivisione e compito della psicoterapia è quello di consentire tale recupero.

Una breve digressione ed una breve notazione a proposito di quanto detto sin qui, relativamente al discorso inerente l'obiettivo della psicoterapia.
Riguardo la necessità di porre attenzione, prima di ogni altra questione, alla figura dello psicoterapeuta.

L'operato del terapeuta non può essere valido se il terapeuta stesso presenta scissioni, negazioni, proiezioni.
Chi teorizza o propone in merito alla sanità mentale non può praticare rapporti interpersonali distorti o disfunzionali (Lalli), e non può operare scisso rispetto al contesto sociale nel quale vive, pena la più totale inconsistenza di ciò che propone.
Si inizia dunque dall'individuo, e si finisce nella società, ma il primo individuo di cui è necessario occuparsi è il terapeuta stesso.
Per il quale deve esistere coerente corrispondenza tra vita privata, professionale e - per l'appunto - sociale, o pubblica.

Lalli riferisce a proposito delle motivazioni di chi intraprende il mestiere di psicoterapeuta, ed elenca motivazioni valide oppure incompatibili; ed è curioso notare come le motivazioni del futuro terapeuta coincidano con quelle medesime motivazioni che possono consentire, in ambito generale, di definire una relazione come sana piuttosto che come malata.

Sono motivazioni valide:
la curiosità e l'interesse per gli altri;
la capacità di ascolto;
l'empatia e la comprensione;
l'introspezione e l'intuito emotivo;
la tolleranza.

Sono motivazioni incompatibili:
il bisogno di potere e di dominio;
la necessità narcisistica di essere amati e riconosciuti;
la presenza di nuclei scissi e perversi;
la tendenza all'isolamento sociale.

Quindi adesso il sogno, di cui poc'anzi parlavo, ma lo precede una citazione, di Mauro Mancia:

"... Esiste un tempo lontano
fuori del ricordo,
muto e non databile,
di cui non parlano narrazioni
né manuali di storia,
un tempo perduto
che a volte
il sogno
riesce a ritrovare."
Mauro Mancia, Il sogno e la sua storia

Perchè si realizzi quella integrazione di cui prima accennavo, è necessario recuperare ed integrare il proprio passato, ed il sogno fornisce tale occasione.

Il sogno:

"A casa mia, ho organizzato una piccola festa e sono arrivate solo persone che 
nella vita non vedo da tanto tempo (vecchi compagni di scuola, bambini con cui giocavo e 
di cui da tanto tempo non ho notizie ... ). Il fatto di non avere intorno nessuno dei miei amici di oggi non 
mi stupisce; sono contenta di rivedere le persone che ci sono... "

"Ad un tratto mi accorgo che da fuori arriva uno strano rumore, come di vento che soffia 
durante una tempesta.
Sono spaventata ma decido comunque di andare a veder cosa sta 
succedendo. Apro la porta e mi accorgo che fuori ha nevicato. La strada è tutta bianca; c' è 
una luce bellissima e la neve che nessuno ha ancora calpestato mi dà una sensazione di pace e 
tranquillità...
Mi sento una sciocca per aver pensato subito al peggio senza aver considerato che nella vita, 
a volte, succedono anche delle cose belle mentre rientro nella stanza dove si sta ancora 
svolgendo la festa. "

"Al centro vedo un grande contenitore pieno fino all' orlo di piccole buste. 
So che ogni busta contiene un regalo per me da parte di una persona sconosciuta. Mi avvicino 
felice sapendo che quelli sono i regali che mi hanno fatto tutte le persone che devo ancora 
incontrare nella mia vita, come un piccolo anticipo dei regali che mi faranno quando ci 
conosceremo e sapendo che allora potrò contraccambiare."

Passato, presente e futuro si fondono nel sogno; "sono contenta di rivedere le persone che ci sono" significa sono contenta di ritrovare le persone che ero, tutte le donne che sono stata.

L'immagine, bellissima, della neve che nessuno ha ancora calpestato riporta a quell'integrità, finalmente ricostituitasi, che prelude al futuro, all'occasione cioé di nuove e diverse modalità di relazione oggettuale.

"Le persone che devo ancora incontrre nella mia vita" significa la donna che potrò un giorno diventare; "sapendo che allora potrò contraccambiare" sta a significare: nel momento in cui riuscirò davvero a realizzare tale condizione di diversità.

Quella condizione di integrità, quella diversità che nel sogno si evidenzia, e che si rende quindi in qualche misura possibile, quella condizione di sanità, apertura al mondo e vitalità che il sogno consente di intuire - e contemporaneamente esprime - serve ad essere impiegata per costruire, nei gruppi, relazioni, nuove, diverse e sane.
Altrimenti non serve a nulla.
Lavoro sprecato.
Occasione perduta.

Ma, dice Nietzche nel 1885, in 'Al di là del bene e del male', che " la follia è molto rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche, è la regola".

La psichiatria e la psicoterapia sin dalle origini e per un lungo periodo si sono interessate quasi esclusivamente della patologia di singoli individui, ed hanno fortemente trascurato invece l'importanza delle dinamiche di gruppo, limitandosi il più delle volte a studiarle nell'ambito dei piccoli gruppi, come ad esempio quelli familiari, ed anche delegando lo studio di fenomeni più ampi, e quanto mai importanti, alla sociologia oppure alla psicologia sociale.
Psichiatria e psicoterapia possono tuttavia fornire, specie in una prospettiva dinamico - culturale, risposte importanti, occasioni significative di comprensione in merito a situazioni ed ambiti di valenza storica e sociale di rilievo e possono contribuire efficacemente non solo alla comprensione, ma anche alla definizione del contesto sociale nel quale si vive, contribuendo a migliorarlo.

Ed anche il rapporto tra individuo e gruppo può essere funzionale o disfunzionale.
Perchè un gruppo sia funzionale è necessario che venga rispettato l'equilibrio che consente, sia all'individuo che al gruppo, di svilupparsi ed evolvere. Il gruppo, inoltre, è funzionale nel momento in cui propone validi e realistici valori che permettano - a loro volta - lo strutturarsi e l'evolvere dell'io di ciascun appartenente al gruppo. Al contrario, qualora il gruppo sia finalizzato a controllare, sottomettere o sfruttare l'individuo - in una parola a negarlo od annichilirlo - allora si viene a definire quello squilibrio tra individuo e gruppo che definisce il gruppo stesso (oppure il contesto sociale nel quale tale dinamica si esprime) come disfunzionale.

Nei gruppi, non solo i gruppi di terapia - naturalmete - ma nei gruppi in genere, dinamiche disfunzionali sono da intendersi soprattutto due: quella che possiamo definire dinamica di ìdentificazione, e quella che possiamo invece definire come dinamica di intolleranza.

L'identificazione: Lalli ne descrive due. La prima è quella che definisce mimetica, o adesiva: e che corrisponde, quasi grottescamente, al ripetere, rifare le cose esteriori, ed anche quelle banali, dell'altro. Questa condizione di identificazione somiglia, per certi versi, ai gravi sintomi psichiatrici dell'ecoprassia e dell'ecolalia, tipici della catatonia. La seconda consiste in quella forma di identificazione che è quel processo in virtù del quale l'altro, o parti dell'altro, vengono introiettate e vanno a costituire quello che viene comunemente definito come il 'falso sé'. Questa seconda forma di identificazione non va obbligatoriamente intesa (anche se può esserlo) come caratteristica della patologia, clinica o subclinica che sia, ma come istanza tendente spesso a permeare sino talvolta persino a caratterizzare la normalità sociale.

Dinamica altrettanto disfunzionale, speculare in fondo rispetto alla precedente, è quella dell'intolleranza, verso tutti coloro che non sono come noi, che non si riconoscono nei nostri valori o nei nostri gruppi, quelli insomma che la pensano diversamente rispetto a come la pensiamo noi: dinamica disfunzionale e - sempre - violenta.

Nei gruppi - anche qui - non quelli terapeutici -, ma nei gruppi in generale, dinamica funzionale tra esseri umani è invece quella improntata al desiderio: desiderio - fondamentalmente - di conoscenza, di ricerca, di autonomia, desiderio che deve essere soddisfatto perchè base di ogni valida relazione, oltrechè - naturalmente - di ogni valida terapia.
La realtà dei rapporti interumani dovrebbe fondarsi sull'interesse per l'altro e sulla ricerca della libertà, propria ed altrui; libertà che non sia figlia dell'indifferenza, del disinteresse, né dell'opportunismo, non vacua parola ma espressione vera della relazione e di un genuino investimento affettivo.
E su quella condizione di autonomia che deve permettere, e consentire, ciò che i più sembrano non saper o poter fare: ovvero dissentire, rifutare, quando ciò si renda necessario.
Mantenere cioè libertà di pensiero e di giudizio, lealtà nei confronti di tutti coloro con i quali si entra in relazione ed onestà intellettuale nei confronti di noi stessi. Lealtà e libertà che consentano altresì di non rinnegare alcunchè di ciò che appartiene al nostro passato, ma anche di poter non accettare - rifiutare - ciò che non condividiamo nel presente, in noi così come al di fuori di noi, in coloro con i quali entriamo in relazione e nei confronti del contesto sociale in cui viviamo.
Ma sempre nel rispetto e nel riconoscimento della liceità che può esistere nella altrui condizione di diversità, linfa vitale della conoscenza umana.

E dunque vorre iriportare il mio discorso all'idea della diversità.

Si può e si deve cogliere e rendere evidente la patologia, sinanco a rifiutarla, ma è sempre necessario distinguere tra patologia e diversità, e rispettare quest'ultima.
La diversità - ed il rispetto della diversità - dovrebbe essere uno dei valori fondamentali della nostra epoca.
La diversità è cultura, scambio, crescita, e dovrebbe far parte della storia diogni uomo, così come dovrebbe far parte della storia di ogni società che voglia dirsi civile.

Viviamo però in una epoca nella quale si oscilla tra intolleranza ed identificazione, nella quale sovente - direi di norma - la diversità appare come pericolo, minaccia, come una barriera che noi stessi frapponiamo tra noi e gli altri, tra il nostro presente ed il nostro futuro.

E' di certo quanto mai rassicurante, ma spesso assolutamete patologico, volersi confrontare soltanto con ciò che già conosciamo, e con ciò che riconosciamo come familiare.

Ma sia nell'ottica dello sviluppo individuale, sia nella prospettiva delle relazioni, entrare in rapporto con l'altro significa entrare in contatto con un'altra identità, con qualcuno e qualcosa che è diverso da noi, e da ciò che nel presente siamo.
Spesso tuttavia, sia a livello personale che relazionale o sociale, si tende ad annullare tale diversità, avendone timore, si accetta con maggiore facilità l'occasione di creare universi omologati, nel tentativo di costruire equilibri perenni, in realtà impossibili da realizzare, comunità di simili dove la caratteristica individuale si perde, dove ci si può soltanto identificare con il gruppo (e che l'occasione di tale identificazione riporti ad una religione, una fede, oppure ad una teora scientifica fa davvero poca differenza) e dove la pluralità dei soggetti non viene rispettata.

Così l'idea di diversità non è più riferita a ciascun soggetto, in quanto differente dall'altro, o ad una prospettiva futura, ma solo ad alcuni - che diventano così i diversi - rispetto all'omologazione dei gruppi.

Il diverso viene ad incarnare l'occasione del pregiudizio, motore malsano che muove azioni ed idee di molti, che condiziona le nostre relazioni sociali, che ostacola opportunità di incontro, esplorazione e scoperta che sono fondamenta del rapporto con l'altro da sé.

Diversi allora, e quindi eclusi, ai margini della società, restano ad essere, in epoche e culture diverse, da sempre i matti, ma ogni epoca ed ogni cultura prevede la propria 'norma' ed i propri esclusi, gli 'anormali'.

Dicevamo poc'anzi che la psichiatria e la psicoterapia non sono solo prassi mediche, ma anche occasioni di 'pratica' sociale.
E la psichiatria ha contibuito - in negativo - a dfinire l'idea della diversità come sinonimo, equivalente, di patologia.
Non che non possa essere vero; solo, non è obbligatoriamente così.
Non solo: ma non è neppure stata in grado di opporsi - ed anzi si è fatta sovente strumento - di barbarie e discriminazioni.
Molti sarebbero gli esempi: molti studi hanno inequivocabilmente dimostrato, ad esempio nel caso della germania nazista, il coinvolgimento della psichiatria nella sperimentazione dei dispositivi di sterminio messi poi in pratica, su larga scala, delregime nazista: l'asilo psichiatrico, in tale prospettiva, si è configurato come terreno di preparazione del genocidio. Ma vorrei citare un altro esempio, che mi colpisce particolarmente: durante il regime di Vichy, in Francia, alla fine degli anni '30, venne praticato nei manicomi una sorta di 'sterminio dolce' (il termine è mutuato da Lafont, storico francese autore del saggio 'Lo sterminio dolce'), imputabile all'inerzia " del corpo medico e psichiatrico che non ha avuto solo un ruolo passivo e rassegnato, ma una parte attiva, non fosse altro che in virtù della sua astensione". Astensione attiva come espressione più evidente di istinto di morte allo 'stato puro', se così si può dire.

Michel Foucault, nel 1975 in un memorabile - si dice - corso tenuto al College de France dal titolo "Gli Anormali" (poi divenuto un libro, edito in Italia da Fltrinelli) si domandava, in maniera quanto mai semplice, ed esplicita: come mai la psichiatria ha potuto funzionare così bene e così spontanemanete sotto il fascismo e sotto il nazismo?

E questa, per l'appunto, è la domanda.

Domanda che anche successivamente, ed anche oggi, molti si sono posti e si pongono, in vario modo ed a proposito di moltelici questioni; com'è che - nonostante cent'anni di psicoanalisi (Hillman) - il mondo va sempre peggio?

Per cercare di fornire una pur parziale risposta possiamo notare come, in fin dei conti, quella che oggi si definisce psicoterapia è pur sempre una disciplina che si è formata, per l'appunto, poco più di cent'anni fa, tempo assolutamente breve ed insufficiente se confrontato con quello di altre branche del sapere, quali ad esempio la medicina. Quindi disciplina giovane, che ancora inevitabilmente presenta gravi contraddizioni e limiti, i quali tuttavia possono e devono essere affrontati e superati.

Di qui deriva la necessità che la psicoterapia rispetti regole fondamentali dal punto di vista medico e terapeutico:
1) intanto, il riferimento a teorie empiriche su cui fondare una prassi terapeutica;
2) il coerente e corretto svolgimento di tale prassi;
3) il progressivo tentativo di individuare metodiche che possano consentire la validazione della terapia stessa.
Anche se, naturalmente, è necessario partire dal presupposto che si debba rinunciare ad "impossibili dimostrazioni di scientificità utilizzando metodiche di tipo neturalistico" (Lalli).

Ma c'è forse un altro motivo, ancora più importante, che è necessario considerare con attenzione.
Prospettiva forse ancora troppo poco condivisa e, quindi, da rimarcare e sottolineare ogni volta.

Quella inerente il fatto che fondamentale sarebbe l'educazone, la prevenzione, il tentativo di agire non solo e non tanto nei confronti di singoli individui, di gruppi terapeutici, o di ristrette comunità, ma nei confronti del contesto sociale stesso che sovente appare fortemente bisognoso di cure - pur non essendone, pare - consapevole.

E dal punto di vista del contesto sociale nel quale tale prassi terapeutica si esprime, bisognerebbe anzitutto considerare che l'essere umano non è solo biologia e che la psicoterapia non è, se non solo marginalmente, una tecnica.
Che la condizione di sofferenza mentale non è destino ineludibile ed ineluttabile, ma una storia che si sviluppa e che può svolgersi in tanti modi diversi, nel condividere con altri in ambienti fisici, relazionali e sociali che possiamo e dovremmo contribuire a rendere diversi.
Che tale disagio può di sicuro essere in qualche misura ricondotto alla biologia, ma di certo anche dalle esperienze che hanno caratterizzato e caratterizzano la nostra vita e dall'ambiente nel quale la nostra vita scorre, e del quale possiamo e dobbiamo entrare a far parte.
Questo è poi il motivo per cui lo psichiatra non può porsi soltanto come positivista, o riduzionista, che riduce e riconduce il dolore, ma direi la stessa condizione umana (poichè tale condizione è sempre inevitabilmente imperfetta) ad una anomalia del cervello.
Questo è anche il motivo per cui lo psichiatra risponde - e deve rispondere - certamente con la propria conoscenza, ma soprattutto con la propria dimensione di umanità, e con la propria visione del mondo, auspicabilmente sana.
E con un esempio, che è quello riconoscibile nella relazione terapeutica, che riconduce in fondo a come ci si dovrebbe porre, in generale, nelle relazioni tra esseri umani.

Alla fine cito Andreoli, da cui ho ampiamente attinto: "La terapia è prima di tutto esperienza di una relazione che si fa essenziale ed umana".

Tenendo dunque infine costantemente presente che si ha un dovere, non solo nei confronti di coloro che a noi come terapeuti si rivolgono, ma nei confronti del contesto sociale nel quale la nostra conoscnza e la nostra prassi si esprimono.

Ho cercato di tracciare, brevemente e parzialmente, un continuum tra individuo, gruppi e società in un'ottica psicodinamica.

Le due diverse immagini del rapporto che può esistere tra psichiatria e società riconducono a due estremi:
Il primo riconducibile all'iconografia cassica, quella del medico ed alienista francese Philippe Pinel, direttore del manicomio Bicetre di Parigi, che scioglieva un gigantesco e pericoloso marinaio, completamente matto, dalle catene di contenzione, abbracciandolo - e mostrando così anche un ivindiabile coraggio -; il secondo riconducibile alla più recente immagine delle camere a gas naziste che, come recitava la propaganda scientifica dell'epoca, "liberano i pazzi dal peso di una vita di sofferenze incurabili".
Evidente involuzione:a partire da una condizione iniziale nella quale la psichiatria si poneva come espressione di istanze di libertà e di affetti.

Lascio a voi decidere - e capisco che non avete molta scelta - in quale delle due immagini sia davvero riconoscibile non solo la conoscenza, l'affettività e l'umanità. Ma anche la scienza.

Nella nostra prospettiva, oggi, la psichiatria e la psicoterapia finiscono per essere uno degli indicatori dello stato di civiltà e di salute di una nazione, pochè misurano, ed esprimono, la capacità di un popolo di accettare - o meno - quel che ho cercato in precedenza di definire come 'diversità'; ma che potremmo forse ancor meglio definire come la condizione essenziale, sempre imperfetta, spesso dolente, di ciascun essere umano.

Francesco Giubbolini, Siena

Dottor Giovanni Carlesi, Firenze

Segue il testo dell'intervento del dottor Giovanni Carlesi, presentato il 6 marzo 2010 ad Empoli (Firenze), in occasione della presentazione della Associazione "Lachesi".

SOCIETA' CONTEMPORANEA, TECNOLOGIA, RIDUZIONISMO 
BIOLOGICO. C'E' SEMPRE POSTO PER LA PSICHE?

Se la vita ha una base su cui poggia ... allora la mia senza dubbio poggia su questo ricordo. 
Quello di giacere mezzo addormentata, mezzo sveglia, sul letto nella stanza dei bambini a St. Ives. Di udire le onde frangersi, uno, due, uno, due ... dietro la tenda gialla. Di udire la tenda strascicare la sua piccola nappa a forma di ghianda sul pavimento quando il vento la muove. E di stare sdraiata e udire gli spruzzi e vedere questa luce e pensare: sembra impossibile che io sia qui ...

Virginia Woolf,"Immagini dal passato" 
In Momenti di essere

Nel titolo del convegno si è inteso parafrasare la presentazione di una famosa pubblicazione,a guisa di intervista, di J. Hillman,lo psicologo americano puntadi diamante dello Junghismo contemporaneo e della psicologia archetipica.
A dire il vero in quello scritto e nelle risposte all'intervistatore, più che sulla psicoterapia in sé, l'indice è puntato sulle forme alienate del convivere nelle società occidentali contemporanee.
La psicoanalisi,d'altra parte, lungo il corso centenario della sua pratica e del suo sviluppo teoretico, non ha saputo opporsi a questa alienazione più generale,rimanendone spesso,essa stessa, impigliata.
La società moderna e la sua organizzazione presentano aspetti complessi e 
differenziati.
Soprattutto le società occidentali sono caratterizzate da spinte efficientiste e competitive, da alti livelli di suddivisione delle attività e delle conoscenze. La caratteristica principale è la settorialità e la superspecializzazione.
Il funzionalismo rigido e pragmatico coinvolge ampi settori della vita
dell' individuo ,da quello economico-lavorativo a quello relazionale ed esperenziale-emotivo.
L'efficientismo e la rigidità del sistema hanno profondamente condizionato 
l'individuo che ha visto mano a mano eroso lo spazio della sua libertà, potendo egli scegliere solo in un ambito di soluzioni già preconfezionate, pur sembrando, al contrario, le scelte infinite,pur sembrando ad esso la libertà,per paradosso,esaltata. 
Possiamo muoverci di più,andare dove vogliamo, in qualsiasi punto del pianeta e con relativa facilità.! miei diritti,almeno formalmente,sono più che garantiti e una ragnatela informativa e assistenziale sembra seguirmi dovunque e proteggermi.
La mia capacità di relazione,di conoscenza è notevolmente aumentata, in maniera fino a poco tempo fa impensabile.Le offerte di svaghi,di occupazione del tempo libero sono praticamente illimitate.
Eppure alla fine si ha la sensazione di non scegliere,oppure che tutte queste offerte siano luci abbaglianti dietro le quali ci sia poco.

Il tempo per riflettere,per meditare,per sentire,ci è sottratto;perfino l'emozione, felice o dolorosa che sia, ha un tempo prestabilito,oltre al quale non si puo' indugiare. 
Tutto appare superficiale,omologato,costretto,magari lucente ma anonimo.Alla fine in questo guazzabuglio di occasioni l'individuo si sente spaesato,estraneo, pur provando queste sensazioni in maniera subliminale.E' un po' come essere in un moderno centro commerciaI e,dove si è bombardati da una massa ingoiante di prodotti che soverchiano con le loro offerte, per le quali diventa difficile scegliere senza esserne confusi. Un aspetto importante dell' alienazione del mondo moderno e interessante per l'argomento della relazione è la nozione del tempo.
Si sa,è noto,oggi si va ad una velocità maggiore,che per altro sembra ancor più aumentare.Non c'è più tempo per fare:le risposte,le soluzioni delle cose devono venire con rapidità,senza esitazione e con buon risultato.Un tempo,appunto,il tempo era più lento.L'indugiare,il non far nulla,il vagabondare,il bighellonare erano momenti costitutivi dell' esistenza. Al contrario della fretta del fare di oggi.
lo penso che il tempo sia un elemento importante della conoscenza di sé stessi. 
L'attesa apre quello spazio che consente l'elaborazione delle cose,dei fatti,degli avvenimenti.
Permette alle emozioni,ai sentimenti di legarsi o sciogliersi piano piano,nel tempo. 
Ecco, tutto ciò che sfugge al pragmatismo del risultato concreto ed immediato,alla soddisfazione di un bisogno immediato nell'immmediatezza della risposta,non è più proponibile.
Oggi non hanno più possibilità di espressione compiuta i desideri,che 
presuppongono una distanza,un varco,una mancanza. Al loro posto solo bisogni che necessitano di un soddisfacimento così rapido da diventare confusivo con il bisogno stesso.Ed è proprio il modello che esige la società compulsivamente consumistica che crea continuamente bisogni da soddisfare.Pieni di piccoli grandi bisogni riduttivi,siamo diventati incapaci di desiderare.E se nel desiderio c'è la scelta e la 
libertà vuoI dire che abbiamo perso queste.
Ora desideri,emozoni,ambivalenze,attese sono un bagaglio complesso della nostra psiche del quale non pssiamo fare a meno.Come ben sa la psicolgia alcuni elementi di questo bagaglio sfuggono alla nostra consapevolezza e giacciono in un territorio interiore e nascosto che conosciamo come inconscio.
Viene da chiedersi che posto hanno,che cittadinanza possono pretendere queste istanze in un assetto collettivo precedentemente così descritto?L'impero della coscienza e del razionalismo sembra escluderle come un fardello inutile e anche un po' fastidioso.
Che senso può avere perdere tempo dietro alla psiche,alla sua cura,accogliendola e coltivandola nella psicoterapia,nella psicoanalisi,nella psiciologia del profondo,se possiamo disporre di mezzi più semplici,efficienti,immediati?
E dov'è il tempo necessario all'ascolto o dove rimane per attendere gli svluppi,le elaborazioni,i dialoghi che la psiche tesse e ritesse?
Diciamocelo,molto meglio un farmaco,molto meglio un'ipotesi biologica,anzi unatesi scientificatnte verificabile,supportata da basi certe che trovino nei geni,nella chimica dei neurotrasmettitori del cervello o nell'asse neuroendocrino,le risposte alle nostre imprevedibili e faticose espressioni emotive.
Un catalogo nosografico certo,uno schema preciso e dattagliato ai quali corrisponda un composto chimico sul quale elaborare una statistica certa di probabilità di contenimento e guarigione.
Ogni comportamento, ogni deviazione prevedibile e catalogabile,da affrontare con una articolata drogheria farmacologica;un po' di questo,un po' di quello e quest'altro,nella giusta misura, per raggiungere uno 'standard' impersonale di benessere. Con il passare degli anni,ogni volta che poso lo sguardo su qualche manuale o trattato di psichiatria o su pubblicazioni varie del circuito specialistico 
sono colto da impulsi contro fobici che mi spingono a compensare con letture di filosofia (ne sarebbero contenti i filosofi di professione ).Sì perché il riduzionismo non è solo del biologismo dilagante e spasmodico ma lo è anche della smania classificatoria della clinica psicopatologica che a tratti mi pare rasenti la forma del delirio:il delirio nosografico.Le comorbidità di tutti i tipi,i sottotipi 1-2-3,le corrispondenze statistiche,le caratteristiche indispensabili e necessarie,4 e non più di 
4,e così via,come nel melange statistico-robotico del DSM IV R e post Revisioned. 
Quindi, tornando alla domanda iniziale del sottotitolo,c' è sempre posto per la psiche oggi e più in particolare per la sua espressività, per la sua cura,nelle forme della psicoanalisi o della psicoterapia?
Da quanto abbiamo detto pare di no.Ma per quanti sforzi si facciano per 
occluderla,scansarla,negarla, la psiche di fatto,appartenendoci,è inevitabile che pretenda ascolto.
Non lo potrà fare nella vie consuete del recente passato né con le rigide metodiche che hanno caratterizzato le discipline che l 'hanno accolta, studiata, gestita nella cura. 
Intendo dire che la psichiatria e a maggior ragione le psicoterapie in senso lato dovranno rivedere alcuni capisaldi delle loro teoresi e confrontarsi con le spinte del mondo moderno. Voglio dire che i tentativi di revisione del corpus psicologico devono impegnare noi cultori e addetti ai lavori e spingerci ad uscire dalle torri di un tecnicismo corporativo per aprirsi a un confronto più ampio con la sociologia,la filosofia,la scienza,senza pretese dogmatiche o verità teoretiche acquisite.
Oggi è sempre possibile offrire un trattamento psicoanalitico che presupponga molte ore settimanali,a costi scarsamente sostenibili,quando le pressioni del contesto civile e collettivo inducono alla fretta,alla risoluzione in tempi brevi,agli investiminti proficui del denaro? E se non è possibile come si concilia lo statuto di conoscenze inalienabili con nuove forme di approccio,rese indispensabili dalla diversa nozione del tempo e dello spazio della modernità?
E ancora il raggiungimento della specifica forma dell'individualità o del sé psichico in che modo si confronta con i meccanismi della contemporaneità dal momento che l'elemento collettivo è diventato così soverchiante e omologante?
Non ci sono risposte già pronte ma stimoli a trovarle sì,se solo ci decidiamo a unconfronto largo e interdisciplinare.
Rispetto al titolo allusivo "cento anni di psicoterapia .... " ,la critica la rivolgerei verso l'interno delle pSFterapie,verso l'interno della pratica analitica. Ma sono solo scorribande controfobiche nella filosofia ... Eppure la psicoanalisi freudiana ma anche la psicologia del profondo di Jung, dalla critica iniziale verso un'attività medica 
routinaria e pragmatica, si sono piegate via via al dictat
dell' efficientismo,identificandosi in arti della guarigione.Arti specializzate nelle funzioni,nelle reazioni e nei meccanismi psichici.Se la moderna medicina, attraverso le superspecializzazioni, ha promosso ancor più la frammentazione dell'individuo in un puzzle di pezzi fisioanatomopatologici,lo stesso ha fatto la psicoterapia, pur negandolo,perché ha incontrato l'individuo malato,che ha questo o 
quello,sintomo,disturbo,nevrosi,ma quasi mai l'individuo per quello che è o vorrebbe esprimere.
Ma l'individuo,al contrario di quanto e come lo spinge l'assetto sociale, come abbiamo visto,ha bisogno per paradosso, oggi più che mai, di essere capito e accettato per quello che è, e cioè come sé stesso.
Nonostante ciò le psicoterapie viaggiano su un binario parallelo alle cure 
mediche,ma in questo modo come le prime,annienteno l'altro come soggetto, che è soggetto solo di sintomi e patologia.
L'individuo compresso nell'identificazione dibisognoso, disabile, sintomatico paziente,vuol diventare invece soggetto di comunicazione, esplorazione, dialogo, cioè proprio di quelle cose che la società gli espropria.
Se in lui il pensiero diventa chiuso,monotono,schematico e immobile non arricchisce la vita ma provoca disinteresse e apatia, come se una continua frustrazione facesse scendere esigenze di qualità avanzata a un livello più profondo,asfittico e "inaccessibile",fino a farlo diventare un'esigenza sconosciuta all'individuo stesso. 
Attraverso il dialogo bisogna ridestare lo spirito assopito,illeone che dorme, per sorprendere di nuovo, incuriosire e liberare la capacità di amare.
Se rimaniamo in un ambito di sofferenza esistenziale o di problemi di 
autorealizzazione e, in senso più generale, di appagamento, finiamo per ruotare sempre intorno all' amore, o meglio intorno alla libertà di sentire,esprimere,accogliere amore.
L'amore è il fondo oscuro e misterioso verso cui tutti tendiamo,sia che lo si esprima nell'agape dell'amicizia o nell'empatia dell'alterità,sia che lo si viva nell'avvolgente tenerezza del rapporto reciproco genitori-figli o nell'eros della dimensione degli amanti.Allora la domanda si fa ancor più incalzante e radicale, c' è sempre posto per l'amore nell'era macchnica o ci ritroviamo fra le mani una sua parodia o un simulacro oggettivante il corpo e la sua immagine?
lo credo che l'omologazione e la predeterminazione del modo moderno abbiano un primum movens nella tecnologia che informa con il suo strapotere la nostra vita. E lo sta facendo da tempo.La tecnologia nell'era delle macchine non conosce sfumature ,non comprende ambivalenze. Il suo è il linguaggio binario che sercita in forma tirannica, del sì o del no, dell'on o dell'off. Per i toni d'ombra, per gli spaziincerti, per le intuizioni morbide,acategoriali,per il sentire dialogico non esisteospitalità.

Perfino la forma esistenziale nelle sue valenze ambientali e progettuali è 
predeterminata: o dentro il mondo tecnologico o fuori.O dentro il monologo, prima scientifico, che impone l'inconfutabilità del modello esistenziale, e poi tecnologico o fuori ,nell'alienazione dal senso collettivo di valori condivisi.
La tecnocrazia non ammette dubbi,esitazioni o rinuncie ma un'accoglienza 
incondizionata assertiva e indiscutibile.
Non ci sono né fini né scopi da raggiungere né desideri da colmare.Da qui al futuro solo l'eterna fruizione dei prodotti tecnologici,eternamente rinnovabili. LLa perfetta corrispondenza dei bisogni, attraverso i prolungamenti meccanico-elettronico- informatici, alle nostre aspettative codificate.
Fine della scelta, fine del dentro e del fuori,fine della soggettività individuale, fine dello dimensione introversa del pensiero e dell'emozione. L'impegno per conservarli,proteggerli,coltivarli sa più di una corsa contro il tempo, talora immemore di ciò che sta accadendo intorno,talora perfino un po' grottesca.
Ritorna la domanda,c'è posto ancora per lo spazio dell'interiorità?
Probabilmente non abbiamo una risposta. Ogni previsione è azzardata, possiamo fare solo tentativi.
Quel che è certo è che dobbiamo ripensare la casa che abitiamo,pensarla in modo nuovo. La casa di psiche non è il mondo che la ospita né il corpo che le è fratello. 
Psiche non abita più certezze né fondamenta epistemologiche attraverso le quali capire il mondo e confrontarsi con esso.
Priva di riferimenti ontologici, ormai diventati inadatti al mondo macchinico che ha introdotto un nuovo senso del mondo,si trova spiazzata,straniera,e come tale deve agire. Anima straniera che assapora la diversità e la sensazione di non appartenenza. 
In questo condivido la visione di Umberto Galimberti che oltre che proporre un approccio diverso della psicoanalisi alla conflittualità nevrotica,non più epressa dal contrasto tra desiderio e proibizione ma dalla contrapposizione fra possibilità illimitata e inadeguatezza, propone per psiche stessa una metafora nuova o, se vogliamo, una nuova etica che l'accolga e la coltivi.
L'etica del viandante. Non più topografie certe basate su piedistalli epistemologici sperimentati,ma soluzioni trovate volta per volta, esattamente come fa l'esploratore che tenta di orientarsi in territori sconosciuti, aggiornando le mappe conosciute e disegnandone di nuove. Paesaggi,sfondi,meditazioni,incontrati e elaborati lungo il 
percorso, e via via utilizzati.In questo senso anche le grandi teoresi che hanno fondato e introdotto gli studi e le conoscenze della psiche vanno rivalutate e rime ditate e forse modificate alla luce di questo nuovo confronto. Con l'etica del viandante forse si può difendere e, per quanto possibile, ampliare la soggettività nell'intrico della ragnatela tecnocratica,sempre vigili però, affinchè l'anima non si perda, senza confronto e senza dialogo,nelmare anonimo e omologante degli spazi 
virtuali.

Giovanni Carlesi, psichiatra - Firenze

link: Associazione "Lachesi"

Dott. Francesca Mancini, Empoli (Firenze)

Quello che segue è l'intervento svolto dalla dott. Francesca Mancini il 6 marzo 2010 ad Empoli, in occasione della presentazione della Associazione "Lachesi".

Gli affetti che curano
Storie di trasformazioni

Francesca Mancini


Il titolo del mio discorso contiene in sé sia il senso del discorso stesso sia il senso della psicoterapia che vogliamo descrivere, qui, oggi.
Vorrei chiarire pochi ma essenziali concetti su cui, proprio per le tante ed, a volte, contraddittorie definizioni che vengono proposte, sono oggetto di ambiguità che, più che informare, disinforma. Molto difficile è riuscire a rendere semplice e comunicabile ai più un processo di cura, quale è la psicoterapia, senza cadere in fuorvianti riduzionismi che ne banalizzano e ne violentano il senso.
Innanzitutto vorrei precisare che le psicoterapie sono attività che possono venire comprese su uno sfondo che non è tanto scientifico quanto sociale e culturale.
Nello specifico,la psicoterapia dinamica tiene conto – e questa è la sua specificità rispetto alle altre psicoterapie – dell’inconscio come istanza psichica, dimensione mentale che determina il comportamento umano e, conseguentemente, le relazioni tra le persone.
Così, l'orientamento psicodinamico vale, oggi, in larga misura,come indagine su un'infinità di episodi e problemi umani.
Quando ci chiediamo quale sia la genesi psicodinamica di un atteggiamento, di un errore, di un sintomo qualsiasi, intendiamo dire che ne ricerchiamo la causa nella vita e nelle vicende personali del soggetto, e soprattutto nell'elaborazione inconscia che egli ne ha fatto, partendo dal presupposto che non esiste un isolabile universo psicologico non-razionale fatto di passioni, istinti, emozioni, perchè in realtà abbiamo sempre a che fare con qualcosa di più complesso, in cui la razionalità è parte del gioco.
Per cui il ruolo dello psicoterapeuta è quello di interpretare – ovvero svelare e definire – ciò che non è evidente. Non si vede, non si tocca, non si sente con le orecchie, non si sente con l’olfatto e neppure con la lingua e il palato ma c’è e, come dicevo, ci determina in maniera preponderante rispetto a tutto il resto.
Di quali strumenti si avvale il terapeuta per interpretare l’inconscio?
A questa domanda potrei rispondere che si avvale degli affetti, intendendo per affetto, sial’affetto che il paziente prova per il terapeuta, sia l’affetto che il terapeuta prova nei confronti del paziente.
I termini analitici specifici che definiscono questo affetto sono il transfert – ovvero ciò che il paziente prova nei confronti del terapeuta, sia in termini regressivi che ripropongono l’amore verso l’adulto significativo, provato nell’infanzia, sia in termini di relazione affettiva che il paziente tenta di stabilire con il proprio terapeuta e precisamente con lui – e di controtransfert – nel senso del coinvolgimento di tutti i sentimenti dell’analista verso il proprio paziente.
In conseguenza di ciò, il controtransfert diventa lo strumento privilegiato di conoscenza del proprio e dell’altrui inconscio e quindi diventa lo strumento essenziale di cura.
Non c’è cura senza amore e l’amore prevede l’incontro di almeno due persone, di almeno due inconsci che concepiscano una nuova relazione intesa come unione indissolubile di transfert- controtransfert.
Il processo terapeutico, dunque, è una “ricostruzione” dell’affettività del paziente, ricostruzione che avviene utilizzando il tramite dell’affettività dell’analista.
Non è possibile alcuna conoscenza, alcuna trasformazione senza il rapporto con l’altro; dove per conoscenza e trasformazione si intende che i processi cognitivi sono a servizio degli affetti.
Conoscenza, dunque, non come mero sapere dottrinario - in questo la psicoterapia dinamica si distingue dalla psicoanalisi - ma come rapporto con l’altro, interesse per l’intima natura dell’altro.
In questo processo trasformativo che abbiamo detto essere la psicoterapia si collocano le resistenze del paziente, le quali altro non sono che il desiderio inconscio del paziente stesso di mantenere lo status-quo, di opporsi ai tentativi del terapeuta di promuovere il cambiamento.
La resistenza accompagna la cura ad ogni passo, tanto che l’analisi diventa l’analisi delle resistenze, consce, inconsce o preconsce che necessariamente vanno interpretate.
Tutte le forme di resistenza hanno in comune il tentativo di evitare sentimenti spiacevoli, come l’ira, la colpa, l’odio, l’amore verso il terapeuta - in termini di paura della dipendenza e del rifiuto - l’invidia, la vergogna, il dolore, l’ansia.
La resistenza difende la malattia del paziente, dove per malattia si intende fondamentalmente una strutturazione rigida di autoinganni che, dando struttura alla vita, pongono apparentemente argine a una moltitudine di rischi esistenziali.
Una volta che il paziente, con l’aiuto del terapeuta, abbia superato ogni resistenza alla terapia e si sia completamente affidato all’altro, compiendo quel salto che lo conduce direttamente nelle sue braccia, è pronto per separarsi da lui con amore.
L’incontro con il terapeuta, dunque, è anche l’incontro con un proprio modo d’essere originario, perduto e ora ritrovato.

Gli affetti che curano
Storie di trasformazioni


Cammino insieme ad un gruppo di persone lungo sentieri di campagna.
Stiamo andando nel centro del paese dove ci sarà una festa.
Il sentiero costeggia dei campi dove i contadini stanno raccogliendo i frutti del loro lavoro e li mettono in grandi ceste di vimini.
E’ un giorno di sole ed è piacevole camminare sull’erba del sentiero.
Arriviamo in paese e cominciamo a sentire la musica di un’orchestra che suona.
Un’amica mi chiede di ballare con lei: esito per un attimo …
Vuole che la guidi io e mi sembra strano perché, di solito, a guidare è l’uomo.
Così iniziamo a ballare e mentre, ballando, attraversiamo la sala, tutt’intorno, in cerchio, vedo gli altri che ballano e sorridono.
C’è un’aria di festa e sono serena; mi piace ballare insieme a loro.
Ad un tratto, un uomo prova a farci una foto ma non ci riesce perché continuamente qualcuno, ballando, passa davanti a lui …
Anche lui vuole ballare e allora ci raggiunge …

Così inizia questa nuova avventura il cui fascino sta proprio nel non sapere dove ci porterà.
“Cammino insieme ad un gruppo di persone …” è l’inizio di un Sogno che sa di coraggio e di paura ma, soprattutto, di disponibilità, senza bisogno di rapporti esclusivi e senza bisogno di aggrapparsi agli altri come a stampelle di carne da cui far dipendere il proprio avanzare …”lungo sentieri di campagna” si procede con calma, senza essere distratti da nulla e dal contado si arriva nel centro del paese “dove ci sarà una festa”. La festa della libertà ben spesa, priva di trasgressione, essenziale nella sua bellezza, dolorosa, a volte, quanto intensa e autentica.
Siamo nel centro del paese; c’è la piazza con la fontana dai quattro leoni, la Collegiata, le campane che battono i loro rintocchi accompagnano i pensieri di chi si appresta ad “ornare il petto e il crine” per il “ dì di festa”… amori di altri diventati miei e forse di altri ancora.
Così si trasmette la poesia, per amore e con amore.
Quando sento il suono delle campane e loro sono lì, dietro la porta con i loro cuori palpitanti di vita, doloranti di vita, che bussano prima di loro, apro e so che faremo festa, andremo alla ricerca dell’amor perduto, disposti a tutto.
La festa sarà la celebrazione di quel dolore, straziante solo se non condiviso, pieno di speranza per chi lo sente ancora e lo usa per creare nuova vita.
Le feste di paese, così tristi da togliere il fiato, se associate a quel senso di estraneità che rende alieni ai sorrisi del conformismo di mummie imbalsamate, troppo impaurite per guardare il vuoto che hanno dentro, diventano, con gli affetti, vitali, ricche di umanità e si festeggia la verità, si piange e si ride senza annullare la morte. Quando non ci riesce lo si riconosce, si soffre, si cade per poi rialzarsi intenzionati a proseguire un cammino impervio, come sempre.
Un sogno di milioni di anni fa e di ieri notte racconta di un’avventura nei vicoli, addobbati a festa, di un paese che sa di magia, di streghe e di maghi, delle novelle delle nonne e di una cura, la mia, la tua, la nostra: il viaggio … “ … camminavo insieme ad un gruppo di persone lungo sentieri di campagna”. Un viaggio che nella mente non si cessa mai di fare e che si somma ad altri viaggi, andata e ritorno, intrapresi in questi anni, sempre per amore e grazie a quell’amore.
C’è anche il ricordo di quel viaggio, quando si intuisce che potrebbe essere l’ultimo: il sudore si mischia alle lacrime, liquido vitale, compagno di sempre, che scioglie ogni conflitto.
Era l’ultima volta, quella che le riassume tutte, resa possibile dall’esperienza di un amore incondizionato che rende, sin dal primo momento, liberi di stare come di andare con la proposta di una prima separazione.
Ecco come i sogni diventano patrimonio di tutti quelli che sanno ascoltarli e appartengono alla storia di chi decide di stare in questa storia.
“Il sentiero costeggia dei campi dove i contadini stanno raccogliendo i frutti del loro lavoro …”, il lavoro dei contadini, specialmente una volta, quando le macchine non sostituivano l’uomo, doveva essere molto faticoso ma anche di grande soddisfazione: si poteva godere, alla fine della giornata, della vista del lavoro ben fatto e “raccogliere i frutti” del sudore versato.
Rischiare tanto, la vita stessa, perché se non produci muori, per raccogliere tutto, la vita stessa, perché puoi sfamarti e soddisfarti del prodotto ottenuto.
Questo vale per ogni vita, per ogni donna, per ogni uomo: la serenità passa attraverso la realizzazione di sé che è progetto, azione, rapporto con l’altro, identità che si fa parola per combattere la solitudine.
Questo serve alla linearità di un cammino che, se contorto, rischia di far sì che le persone si perdano nel labirinto del “Cogito ergo sum” che, più che richiamare immagini agresti, evoca paranoie di filosofi stantii, abitanti di soffitte polverose, isolati in un mondo astratto, pericolosamente saggi, alla ricerca di fredde parole-chiave che aprano le porte ad orizzonti vuoti, sempre uguali a se stessi, ossessivi e persecutori nella loro ripetitività.
Ruminare su alte questioni di puro spirito: pura pazzia!
Nel sogno, al contrario, dopo anni di rapporto analitico, si raccolgono i frutti di quel duro “lavoro”, fatto di sangue e di carne e di lacrime e di liquido seminale e di doglie e di grida e di balbettii e tremiti e silenzi e umanità, né più né meno com’è nella vita stessa.
“ … e li mettono in grandi ceste di vimini …” …entrando nel piccolo studio, sulla destra, c’è un cesto di vimini, rosso, che dice di un’infanzia gioiosa … lei correva lungo quei magazzini immensi per lunghezza ed altezza, con i neon che, di sera, emanavano una luce pallida e fredda, comunque familiare e amorevole; sentiva gli odori del vimini, del castagno, della colla, del diluente – quanto erano buoni! – e si divertiva ad aiutare suo nonno, un uomo piccoletto, burbero e simpatico, schietto come pochi al mondo, a “tuffare” i cesti nella colla per poi metterli al sole ad asciugare.
Si sentiva libera, importante in questo ruolo di aiutante e, soprattutto, amata … ora il sogno di lei prosegue così, ma ormai il sogno è di un altro che scrive, carta e penna alla mano, di quel cesto rosso … così mi rendo conto che questi pensieri ci devono essere ogni volta che lo sguardo ci cade sopra. La sensibilità di qualcuno ha colto quest’affetto e l’ha sognato, unendo, così, le storie di tutti .
La cesta non è più piena di dolci di ogni tipo, come quando stava sotto l’albero di quei magici Natali, tutta incelofanata con una coccarda rossa “sulle ventitré”, ad aspettare la bambina; contiene, invece, gli oggetti della cura, parti di noi, di una bella giornata di primavera che fu, per alcuni, determinante per affidarsi alla cura, come relazione d’amore. Intravidero una possibilità e la perseguirono … “era un giorno di sole ed era piacevole camminare sull’erba del sentiero”.
“Arriviamo nel centro del paese e cominciamo a sentire la musica di un’orchestra che suona …”.
Solo accettando di addentrarsi nelle viuzze del paese, estraneo e familiare, è possibile ripopolarlo, abitarlo, incontrare la sconosciuta e conoscerne il linguaggio, non più criptico, oscuro, terrifico ma, dipanata la matassa, trovata la chiave o l’accordo, svelato il nucleo, ogni nota si lega all’altra e si fa musica.
Mi oriento nei suoni e nelle pause, le capisco senza capire, le sento, come quel primo giorno lontano di cui ora faccio di nuovo esperienza e rinasco e ci sono e ci siamo e vi vedo e vi sento … ed è musica di un’orchestra che suona.
Ci canta dentro, ci suona dentro … non più pappagalli meccanici caricati per sparare a raffica illusorie parole di gelida morte, senza senso, ma armonia di suoni in cui è dolce naufragare.
L’invito è a lasciarsi andare, ad affidarsi nelle braccia di quella musica perché, una volta sentita, occorre cavalcarla, animarla a passi di danza, farne gesti precisi e forti che sono le realizzazioni di ognuno, le vite di ognuno.
Proprio perché ciò che sentiamo è l’unica certezza, ciò che sentiamo è l’unica spinta al salto che ogni scelta comporta. E, ogni volta, la questione è sempre la stessa: essere o non essere; vivere o morire … “ un’amica mi chiede di ballare con lei; esito per un attimo …” perché “l’unica risposta possibile è, forse, in quell’attimo di esitazione e di incertezza che ci coglie prima di ogni possibile risposta; in quell’attimo di silenzio nel quale ogni parola pare sviata, smarrita nel labirinto dell’inconscio: è solo in quell’attimo che è possibile capire quale possa essere – come e dove possa ancora ritrovarsi – la ragione degli affetti… E’ nel silenzio di un vuoto colmato che può forse emergere la risposta più vera, che è tale anche perché inesprimibile. Cosicchè l’inconscio, in quell’attimo, non ha più bisogno di parole”. (Cit. La ragione degli affetti, Giubbolini F.).
“Vuole che la guidi io e mi sembra strano …”, ancora l’effetto straniante di un abbraccio che, attraverso il contatto col corpo, tocca l’inconscio, lo accarezza, lo muove, lo palpa, lo avvolge e lo stravolge e i piedi sono al posto della testa e la testa è al posto dei piedi che ragionano meglio, immediati, lucidi, razionali. Crollano tutti gli stereotipi … “… di solito è l’uomo a guidare” e il sole sorge a illuminare i sotterranei dell’inconscio.
“Così iniziamo a ballare” è il momento di fare l’amore, non c’è più alcuna esitazione.
Padroni di noi stessi, senza alcun controllo, né possesso, sfioriamo l’estasi di un incastro perfetto …e in quell’istante si svela il segreto e potremmo anche morire. Non c’è più alcun confine, è un tutt’uno di corpi e di menti, è l’io – tu che diventa noi, è il superamento di ogni solitudine, è la meta di quei tanti viaggi intrapresi alla ricerca di un unico possibile senso della vita, il sesto senso, la relazione con l’altro.
“ …e mentre, ballando, attraversiamo la sala …”, il paese, la vita, lo spazio interiore, privo di spigoli, rotondo, la radura nella “selva oscura”, “tutt’intorno, in cerchio, vedo gli altri che ballano e sorridono”.
Solo allora vediamo con chiarezza chi c’è intorno a noi, chi sono gli altri, cosa fanno.
I confini sono di nuovo delineati, una nuova separazione si è compiuta ma questa volta non ha seminato cadaveri, odio accecante che non permette di distinguere più nulla o fuoco di rabbia inceneritrice ma virgulti sinuosi di anime salve.
Siamo pronti per voltarsi, sollevare lo sguardo, senza paura e incontrare i volti sorridenti degli altri … “c’è un’aria di festa e sono serena, mi piace ballare insieme a loro”… ed è la quiete dopo la tempesta … quiete, troppe volte confusa con l’indifferenza di chi sopravvive nell’assenza di suoni interiori.
Quando parliamo di quiete, noi intendiamo riferirci allo stato di grazia proprio di quella armoniosa melodia di fondo che contiene in sé, alle volte, anche suoni dodecafonici. Sono increspature, onde, marosi, cavalloni, espressioni diverse di un unico mare.
E’ la quiete della conquista dell’identità: il recupero del senso di sé che è anche senso dell’altro.
“Ad un tratto, un uomo prova a farci una foto, ma non ci riesce …” perché non si può fermare lo scorrere del tempo, non ci si può “bagnare due volte nelle acque del medesimo fiume”, si può solo andare avanti con un’immagine interna che ci accompagni alla ricerca di nuove isole sconosciute – l’amore che provo per te è il risultato di tutti gli amori provati nella mia vita. Ecco perché ogni volta è sempre più bello … “ e continuamente qualcuno passa davanti a lui, ballando”.
Non c’è altra scelta se non quella di salire sulla nave del desiderio, insieme a chi quel desiderio ce lo aveva già da prima e ti stava aspettando… “vuole ballare anche lui e allora ci raggiunge”.
Mi sveglio, ci svegliamo e inizia un nuovo sogno, una nuova trasformazione, un nuovo viaggio … “Un uomo andò a bussare alla porta del re …”.