Dott. Francesca Mancini, Empoli (Firenze)

Quello che segue è l'intervento svolto dalla dott. Francesca Mancini il 6 marzo 2010 ad Empoli, in occasione della presentazione della Associazione "Lachesi".

Gli affetti che curano
Storie di trasformazioni

Francesca Mancini


Il titolo del mio discorso contiene in sé sia il senso del discorso stesso sia il senso della psicoterapia che vogliamo descrivere, qui, oggi.
Vorrei chiarire pochi ma essenziali concetti su cui, proprio per le tante ed, a volte, contraddittorie definizioni che vengono proposte, sono oggetto di ambiguità che, più che informare, disinforma. Molto difficile è riuscire a rendere semplice e comunicabile ai più un processo di cura, quale è la psicoterapia, senza cadere in fuorvianti riduzionismi che ne banalizzano e ne violentano il senso.
Innanzitutto vorrei precisare che le psicoterapie sono attività che possono venire comprese su uno sfondo che non è tanto scientifico quanto sociale e culturale.
Nello specifico,la psicoterapia dinamica tiene conto – e questa è la sua specificità rispetto alle altre psicoterapie – dell’inconscio come istanza psichica, dimensione mentale che determina il comportamento umano e, conseguentemente, le relazioni tra le persone.
Così, l'orientamento psicodinamico vale, oggi, in larga misura,come indagine su un'infinità di episodi e problemi umani.
Quando ci chiediamo quale sia la genesi psicodinamica di un atteggiamento, di un errore, di un sintomo qualsiasi, intendiamo dire che ne ricerchiamo la causa nella vita e nelle vicende personali del soggetto, e soprattutto nell'elaborazione inconscia che egli ne ha fatto, partendo dal presupposto che non esiste un isolabile universo psicologico non-razionale fatto di passioni, istinti, emozioni, perchè in realtà abbiamo sempre a che fare con qualcosa di più complesso, in cui la razionalità è parte del gioco.
Per cui il ruolo dello psicoterapeuta è quello di interpretare – ovvero svelare e definire – ciò che non è evidente. Non si vede, non si tocca, non si sente con le orecchie, non si sente con l’olfatto e neppure con la lingua e il palato ma c’è e, come dicevo, ci determina in maniera preponderante rispetto a tutto il resto.
Di quali strumenti si avvale il terapeuta per interpretare l’inconscio?
A questa domanda potrei rispondere che si avvale degli affetti, intendendo per affetto, sial’affetto che il paziente prova per il terapeuta, sia l’affetto che il terapeuta prova nei confronti del paziente.
I termini analitici specifici che definiscono questo affetto sono il transfert – ovvero ciò che il paziente prova nei confronti del terapeuta, sia in termini regressivi che ripropongono l’amore verso l’adulto significativo, provato nell’infanzia, sia in termini di relazione affettiva che il paziente tenta di stabilire con il proprio terapeuta e precisamente con lui – e di controtransfert – nel senso del coinvolgimento di tutti i sentimenti dell’analista verso il proprio paziente.
In conseguenza di ciò, il controtransfert diventa lo strumento privilegiato di conoscenza del proprio e dell’altrui inconscio e quindi diventa lo strumento essenziale di cura.
Non c’è cura senza amore e l’amore prevede l’incontro di almeno due persone, di almeno due inconsci che concepiscano una nuova relazione intesa come unione indissolubile di transfert- controtransfert.
Il processo terapeutico, dunque, è una “ricostruzione” dell’affettività del paziente, ricostruzione che avviene utilizzando il tramite dell’affettività dell’analista.
Non è possibile alcuna conoscenza, alcuna trasformazione senza il rapporto con l’altro; dove per conoscenza e trasformazione si intende che i processi cognitivi sono a servizio degli affetti.
Conoscenza, dunque, non come mero sapere dottrinario - in questo la psicoterapia dinamica si distingue dalla psicoanalisi - ma come rapporto con l’altro, interesse per l’intima natura dell’altro.
In questo processo trasformativo che abbiamo detto essere la psicoterapia si collocano le resistenze del paziente, le quali altro non sono che il desiderio inconscio del paziente stesso di mantenere lo status-quo, di opporsi ai tentativi del terapeuta di promuovere il cambiamento.
La resistenza accompagna la cura ad ogni passo, tanto che l’analisi diventa l’analisi delle resistenze, consce, inconsce o preconsce che necessariamente vanno interpretate.
Tutte le forme di resistenza hanno in comune il tentativo di evitare sentimenti spiacevoli, come l’ira, la colpa, l’odio, l’amore verso il terapeuta - in termini di paura della dipendenza e del rifiuto - l’invidia, la vergogna, il dolore, l’ansia.
La resistenza difende la malattia del paziente, dove per malattia si intende fondamentalmente una strutturazione rigida di autoinganni che, dando struttura alla vita, pongono apparentemente argine a una moltitudine di rischi esistenziali.
Una volta che il paziente, con l’aiuto del terapeuta, abbia superato ogni resistenza alla terapia e si sia completamente affidato all’altro, compiendo quel salto che lo conduce direttamente nelle sue braccia, è pronto per separarsi da lui con amore.
L’incontro con il terapeuta, dunque, è anche l’incontro con un proprio modo d’essere originario, perduto e ora ritrovato.

Gli affetti che curano
Storie di trasformazioni


Cammino insieme ad un gruppo di persone lungo sentieri di campagna.
Stiamo andando nel centro del paese dove ci sarà una festa.
Il sentiero costeggia dei campi dove i contadini stanno raccogliendo i frutti del loro lavoro e li mettono in grandi ceste di vimini.
E’ un giorno di sole ed è piacevole camminare sull’erba del sentiero.
Arriviamo in paese e cominciamo a sentire la musica di un’orchestra che suona.
Un’amica mi chiede di ballare con lei: esito per un attimo …
Vuole che la guidi io e mi sembra strano perché, di solito, a guidare è l’uomo.
Così iniziamo a ballare e mentre, ballando, attraversiamo la sala, tutt’intorno, in cerchio, vedo gli altri che ballano e sorridono.
C’è un’aria di festa e sono serena; mi piace ballare insieme a loro.
Ad un tratto, un uomo prova a farci una foto ma non ci riesce perché continuamente qualcuno, ballando, passa davanti a lui …
Anche lui vuole ballare e allora ci raggiunge …

Così inizia questa nuova avventura il cui fascino sta proprio nel non sapere dove ci porterà.
“Cammino insieme ad un gruppo di persone …” è l’inizio di un Sogno che sa di coraggio e di paura ma, soprattutto, di disponibilità, senza bisogno di rapporti esclusivi e senza bisogno di aggrapparsi agli altri come a stampelle di carne da cui far dipendere il proprio avanzare …”lungo sentieri di campagna” si procede con calma, senza essere distratti da nulla e dal contado si arriva nel centro del paese “dove ci sarà una festa”. La festa della libertà ben spesa, priva di trasgressione, essenziale nella sua bellezza, dolorosa, a volte, quanto intensa e autentica.
Siamo nel centro del paese; c’è la piazza con la fontana dai quattro leoni, la Collegiata, le campane che battono i loro rintocchi accompagnano i pensieri di chi si appresta ad “ornare il petto e il crine” per il “ dì di festa”… amori di altri diventati miei e forse di altri ancora.
Così si trasmette la poesia, per amore e con amore.
Quando sento il suono delle campane e loro sono lì, dietro la porta con i loro cuori palpitanti di vita, doloranti di vita, che bussano prima di loro, apro e so che faremo festa, andremo alla ricerca dell’amor perduto, disposti a tutto.
La festa sarà la celebrazione di quel dolore, straziante solo se non condiviso, pieno di speranza per chi lo sente ancora e lo usa per creare nuova vita.
Le feste di paese, così tristi da togliere il fiato, se associate a quel senso di estraneità che rende alieni ai sorrisi del conformismo di mummie imbalsamate, troppo impaurite per guardare il vuoto che hanno dentro, diventano, con gli affetti, vitali, ricche di umanità e si festeggia la verità, si piange e si ride senza annullare la morte. Quando non ci riesce lo si riconosce, si soffre, si cade per poi rialzarsi intenzionati a proseguire un cammino impervio, come sempre.
Un sogno di milioni di anni fa e di ieri notte racconta di un’avventura nei vicoli, addobbati a festa, di un paese che sa di magia, di streghe e di maghi, delle novelle delle nonne e di una cura, la mia, la tua, la nostra: il viaggio … “ … camminavo insieme ad un gruppo di persone lungo sentieri di campagna”. Un viaggio che nella mente non si cessa mai di fare e che si somma ad altri viaggi, andata e ritorno, intrapresi in questi anni, sempre per amore e grazie a quell’amore.
C’è anche il ricordo di quel viaggio, quando si intuisce che potrebbe essere l’ultimo: il sudore si mischia alle lacrime, liquido vitale, compagno di sempre, che scioglie ogni conflitto.
Era l’ultima volta, quella che le riassume tutte, resa possibile dall’esperienza di un amore incondizionato che rende, sin dal primo momento, liberi di stare come di andare con la proposta di una prima separazione.
Ecco come i sogni diventano patrimonio di tutti quelli che sanno ascoltarli e appartengono alla storia di chi decide di stare in questa storia.
“Il sentiero costeggia dei campi dove i contadini stanno raccogliendo i frutti del loro lavoro …”, il lavoro dei contadini, specialmente una volta, quando le macchine non sostituivano l’uomo, doveva essere molto faticoso ma anche di grande soddisfazione: si poteva godere, alla fine della giornata, della vista del lavoro ben fatto e “raccogliere i frutti” del sudore versato.
Rischiare tanto, la vita stessa, perché se non produci muori, per raccogliere tutto, la vita stessa, perché puoi sfamarti e soddisfarti del prodotto ottenuto.
Questo vale per ogni vita, per ogni donna, per ogni uomo: la serenità passa attraverso la realizzazione di sé che è progetto, azione, rapporto con l’altro, identità che si fa parola per combattere la solitudine.
Questo serve alla linearità di un cammino che, se contorto, rischia di far sì che le persone si perdano nel labirinto del “Cogito ergo sum” che, più che richiamare immagini agresti, evoca paranoie di filosofi stantii, abitanti di soffitte polverose, isolati in un mondo astratto, pericolosamente saggi, alla ricerca di fredde parole-chiave che aprano le porte ad orizzonti vuoti, sempre uguali a se stessi, ossessivi e persecutori nella loro ripetitività.
Ruminare su alte questioni di puro spirito: pura pazzia!
Nel sogno, al contrario, dopo anni di rapporto analitico, si raccolgono i frutti di quel duro “lavoro”, fatto di sangue e di carne e di lacrime e di liquido seminale e di doglie e di grida e di balbettii e tremiti e silenzi e umanità, né più né meno com’è nella vita stessa.
“ … e li mettono in grandi ceste di vimini …” …entrando nel piccolo studio, sulla destra, c’è un cesto di vimini, rosso, che dice di un’infanzia gioiosa … lei correva lungo quei magazzini immensi per lunghezza ed altezza, con i neon che, di sera, emanavano una luce pallida e fredda, comunque familiare e amorevole; sentiva gli odori del vimini, del castagno, della colla, del diluente – quanto erano buoni! – e si divertiva ad aiutare suo nonno, un uomo piccoletto, burbero e simpatico, schietto come pochi al mondo, a “tuffare” i cesti nella colla per poi metterli al sole ad asciugare.
Si sentiva libera, importante in questo ruolo di aiutante e, soprattutto, amata … ora il sogno di lei prosegue così, ma ormai il sogno è di un altro che scrive, carta e penna alla mano, di quel cesto rosso … così mi rendo conto che questi pensieri ci devono essere ogni volta che lo sguardo ci cade sopra. La sensibilità di qualcuno ha colto quest’affetto e l’ha sognato, unendo, così, le storie di tutti .
La cesta non è più piena di dolci di ogni tipo, come quando stava sotto l’albero di quei magici Natali, tutta incelofanata con una coccarda rossa “sulle ventitré”, ad aspettare la bambina; contiene, invece, gli oggetti della cura, parti di noi, di una bella giornata di primavera che fu, per alcuni, determinante per affidarsi alla cura, come relazione d’amore. Intravidero una possibilità e la perseguirono … “era un giorno di sole ed era piacevole camminare sull’erba del sentiero”.
“Arriviamo nel centro del paese e cominciamo a sentire la musica di un’orchestra che suona …”.
Solo accettando di addentrarsi nelle viuzze del paese, estraneo e familiare, è possibile ripopolarlo, abitarlo, incontrare la sconosciuta e conoscerne il linguaggio, non più criptico, oscuro, terrifico ma, dipanata la matassa, trovata la chiave o l’accordo, svelato il nucleo, ogni nota si lega all’altra e si fa musica.
Mi oriento nei suoni e nelle pause, le capisco senza capire, le sento, come quel primo giorno lontano di cui ora faccio di nuovo esperienza e rinasco e ci sono e ci siamo e vi vedo e vi sento … ed è musica di un’orchestra che suona.
Ci canta dentro, ci suona dentro … non più pappagalli meccanici caricati per sparare a raffica illusorie parole di gelida morte, senza senso, ma armonia di suoni in cui è dolce naufragare.
L’invito è a lasciarsi andare, ad affidarsi nelle braccia di quella musica perché, una volta sentita, occorre cavalcarla, animarla a passi di danza, farne gesti precisi e forti che sono le realizzazioni di ognuno, le vite di ognuno.
Proprio perché ciò che sentiamo è l’unica certezza, ciò che sentiamo è l’unica spinta al salto che ogni scelta comporta. E, ogni volta, la questione è sempre la stessa: essere o non essere; vivere o morire … “ un’amica mi chiede di ballare con lei; esito per un attimo …” perché “l’unica risposta possibile è, forse, in quell’attimo di esitazione e di incertezza che ci coglie prima di ogni possibile risposta; in quell’attimo di silenzio nel quale ogni parola pare sviata, smarrita nel labirinto dell’inconscio: è solo in quell’attimo che è possibile capire quale possa essere – come e dove possa ancora ritrovarsi – la ragione degli affetti… E’ nel silenzio di un vuoto colmato che può forse emergere la risposta più vera, che è tale anche perché inesprimibile. Cosicchè l’inconscio, in quell’attimo, non ha più bisogno di parole”. (Cit. La ragione degli affetti, Giubbolini F.).
“Vuole che la guidi io e mi sembra strano …”, ancora l’effetto straniante di un abbraccio che, attraverso il contatto col corpo, tocca l’inconscio, lo accarezza, lo muove, lo palpa, lo avvolge e lo stravolge e i piedi sono al posto della testa e la testa è al posto dei piedi che ragionano meglio, immediati, lucidi, razionali. Crollano tutti gli stereotipi … “… di solito è l’uomo a guidare” e il sole sorge a illuminare i sotterranei dell’inconscio.
“Così iniziamo a ballare” è il momento di fare l’amore, non c’è più alcuna esitazione.
Padroni di noi stessi, senza alcun controllo, né possesso, sfioriamo l’estasi di un incastro perfetto …e in quell’istante si svela il segreto e potremmo anche morire. Non c’è più alcun confine, è un tutt’uno di corpi e di menti, è l’io – tu che diventa noi, è il superamento di ogni solitudine, è la meta di quei tanti viaggi intrapresi alla ricerca di un unico possibile senso della vita, il sesto senso, la relazione con l’altro.
“ …e mentre, ballando, attraversiamo la sala …”, il paese, la vita, lo spazio interiore, privo di spigoli, rotondo, la radura nella “selva oscura”, “tutt’intorno, in cerchio, vedo gli altri che ballano e sorridono”.
Solo allora vediamo con chiarezza chi c’è intorno a noi, chi sono gli altri, cosa fanno.
I confini sono di nuovo delineati, una nuova separazione si è compiuta ma questa volta non ha seminato cadaveri, odio accecante che non permette di distinguere più nulla o fuoco di rabbia inceneritrice ma virgulti sinuosi di anime salve.
Siamo pronti per voltarsi, sollevare lo sguardo, senza paura e incontrare i volti sorridenti degli altri … “c’è un’aria di festa e sono serena, mi piace ballare insieme a loro”… ed è la quiete dopo la tempesta … quiete, troppe volte confusa con l’indifferenza di chi sopravvive nell’assenza di suoni interiori.
Quando parliamo di quiete, noi intendiamo riferirci allo stato di grazia proprio di quella armoniosa melodia di fondo che contiene in sé, alle volte, anche suoni dodecafonici. Sono increspature, onde, marosi, cavalloni, espressioni diverse di un unico mare.
E’ la quiete della conquista dell’identità: il recupero del senso di sé che è anche senso dell’altro.
“Ad un tratto, un uomo prova a farci una foto, ma non ci riesce …” perché non si può fermare lo scorrere del tempo, non ci si può “bagnare due volte nelle acque del medesimo fiume”, si può solo andare avanti con un’immagine interna che ci accompagni alla ricerca di nuove isole sconosciute – l’amore che provo per te è il risultato di tutti gli amori provati nella mia vita. Ecco perché ogni volta è sempre più bello … “ e continuamente qualcuno passa davanti a lui, ballando”.
Non c’è altra scelta se non quella di salire sulla nave del desiderio, insieme a chi quel desiderio ce lo aveva già da prima e ti stava aspettando… “vuole ballare anche lui e allora ci raggiunge”.
Mi sveglio, ci svegliamo e inizia un nuovo sogno, una nuova trasformazione, un nuovo viaggio … “Un uomo andò a bussare alla porta del re …”.

2 commenti:

Lorenzo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Lorenzo ha detto...

L'indifferenza che ho confuso con la quiete spesso è un'onda anomala che tutto sommerge. Questa è una poesia di Mario Luzi

Di che è mancanza questa mancanza


Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne sei pieno?
di che ? Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…

Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce forza e canto
la musica perpetua…ritornerà.
Sii calmo.

Lorenzo